27 aprile 2022

Investitori europei e statunitensi: intervista a Laurenne Hemily-Figus e Andrea Di Natale



Il punto di vista di Laurenne Hemily-Figus, tra le primissime socie IAG sin dal 2008, e Andrea Di Natale, entrato a far parte del network da quasi due anni.

Laurenne Hemily-Figus ha lavorato a Washington, Londra, Chicago e a Milano nella finanza internazionale per quasi 20 anni presso le più rinomate banche d’affari al mondo. Ha poi deciso di intraprendere un percorso imprenditoriale lanciando dei prodotti che salvaguardano l’ambiente. Da lì un dottorato di ricerca presso la King’s College a Londra dove ha ottenuto un Ph.D in Environmental Sciences. Durante questo stesso periodo ha trovato anche il tempo di acquistare e gestire svariate proprietà in 3 paesi diversi e su 2 continenti e cimentarsi nel mondo dei Business Angels.

Andrea Di Natale vive in Olanda ed è specializzato nello scale-up delle Operations di aziende Tech. Da sempre appassionato allo sviluppo di organizzazioni, sistemi e processi in fase di hyper-growth, ha lavorato per start-up e grandi aziende in America, Africa ed Europa. È attualmente Head of Global Operations ad Oyster, una start-up nel settore Risorse Umane.

Laurenne Hemily-Figus

Qual è il tuo background e come ti sei avvicinata al mondo dei business angel?

Sono cresciuta in Francia. Avendo la sorellina affetta da Down Syndrome, il mio sogno era studiare medicina a Parigi. Ma per ragioni economiche e di necessità familiare, ho dovuto trasferirmi a Washington e trascorrere un percorso formativo più consono alla mia situazione finanziaria. Ho ricevuto un appoggio dalla Chiesa Cattolica e mi sono sovracaricata di studi presso un’università gesuita, con l’impegno di raggiungere al più presto l’indipendenza economica per aiutare a sostenere mia sorella e mia madre. Laureata a 19 anni, ho cominciato a lavorare nello staff di un Parlamentare americano, seguito dalla consulenza per la Banca Mondiale per poi entrare nelle istituzioni finanziarie internazionali. Ho scoperto il mondo del Venture Capital nel 1987, a Londra sul trading desk, con la responsabilità di sindacare a livello internazionale un Venture Capital Fund americano di rilievo. Nel 1990, ho lavorato con Continental Bank a Milano sul primo Private Equity Fund (e ho ritrovato in IAG molti anni più tardi uno dei fondatori del fondo). In seguito, sono diventata responsabile del primo desk di trading di Leveraged Buy Outs (LBOs). Queste esperienze mi hanno spronato a lanciarmi nel campo imprenditoriale, dedicandomi al settore dell’ambiente. Mi è parso quello che obiettivamente era più vicino alla mia passione iniziale, la medicina e salvare vite. Poco dopo essermi trasferita a Roma, ho scoperto IAG e con Betsy Robinson (Phi Beta Kappa anche lei) siamo diventate le prime due socie femminili di IAG nel settembre 2008.

Hai un grande interesse nel rafforzare le iniziative del settore privato e le partnership con organizzazioni governative e intergovernative che promuovono la protezione dell'ambiente e i valori umani correlati di salute e occupazione. Che futuro prevedi e quanto è importante la sensibilizzazione sui temi ambientali?

Il ruolo dei governi e delle organizzazioni governative e intergovernative che promuovono la protezione dell’ambiente sono essenziali per arrivare ad una vera e sostanziale protezione sia dell’ambiente che dei valori umani correlati di salute e occupazione. Ritengo che ci debbano essere delle leggi chiare e precise per obbligare le società private e pubbliche a seguire questo percorso critico. Detto questo, la creatività e la passione possono e devono portare a soluzioni che sono non soltanto positivi per l’ambiente e la salute ma anche economicamente interessanti per gli imprenditori. Innovation, disruptive technology e logistica sono i campi che in questo momento mi appassionano di più. Ma alla base sono sempre le persone che fanno la differenza.

Nel corso degli anni hai finanziato e sponsorizzato diverse startup e vissuto negli USA e in Inghilterra. Confermi la tendenza tra gli investitori statunitensi ad investire in maniera concentrata, cioè investendo molto su poche imprese vincenti, a differenza degli investitori europei che tendono a diversificare gli investimenti, cioè investono poco su tante imprese indipendentemente dalla loro possibilità di successo?

Il mio parere molto personale è che gli investitori statunitensi sono conosciuti come “zip code investors.” Forse perché possono trovare tante opportunità d’investimento per “zip code” e non hanno la necessità di allontanarsi troppo dal loro confine. E tipicamente molto spesso scommettono in modo significativo. È anche vero che conoscono meno la realtà al di fuori dalla loro zona geografica e sono meno propensi a considerare investimenti altrove. Gli investitori europei invece tendono a diversificare di più i loro investimenti e a seguire il modello “spray and pray” che ho visto fare in Israele. Questo è dovuto in parte a varie ragioni, che stanno piano piano cambiando, come la mancanza di agevolazione fiscale e relativamente meno opportunità d’investimento a livello locale. Anche se la grande iniziativa del mio consocio Luigi Capello con LUISS ENLABS sta dando nuovi importanti sbocchi per la creatività degli imprenditori italiani.

La multiculturalità ha un peso non indifferente nella creazione dell’innovazione. Vista la tua esperienza all’estero quali consigli ti senti di dare ai giovani italiani che intendono creare o lavorare in una startup?

Come prima cosa, consiglierei di coinvolgersi in programmi socio-economici-culturali per il bene dell’ambiente e la salute, come ad esempio RetakeRoma (nel quale hanno partecipato i miei 4 figli fin dall’inizio). Poi direi che è assolutamente essenziale andare all’estero per confrontarsi con altre realtà, abbandonando a tutti i costi il proprio “comfort zone.” Quando uno non è più in controllo del proprio ambiente, non domina la lingua ed è obbligato a confrontarsi con altre usanze e culture, che credo possa intravedere un altro punto di vista, permettendo i sogni e la passione di trasformarsi in realtà. Ho lavorato per più di dieci anni creando iniziative e piattaforme per assistere ragazzi italiani a studiare all’estero, principalmente in Inghilterra e ad aderire ad una delle più note università tecnico-scientifiche israeliane.

Andrea Di Natale

Qual è il tuo background e perché hai scelto di far parte di IAG?

Ho un background in ingegneria e consulenza, e sin dall'inizio della mia carriera mi sono appassionato al settore Tech. Nel 2009 mi son trasferito nella Silicon Valley, dove ho ottenuto un MBA a Stanford e ho collaborato con aziende Tech nella Bay Area. Lì ho scoperto il mondo delle start-up e dei Venture Capital e, grazie al mio network professionale, sono diventato business angel.
Nel 2015 sono ritornato in Europa dove ho continuato a lavorare nel settore Tech, principalmente nello scale-up delle Operations, inizialmente con Jumia (e-commerce in Africa, IPO nel 2019), poi Booking.com e infine Oyster (piattaforma HR, Series C), di cui sono attualmente responsabile per Global Operations. Sono entrato in IAG due anni fa perché, al di là delle opportunità di investimento, volevo approfondire la conoscenza dell'ecosistema italiano ed europeo delle start-up e VC tech, e mettere la mia esperienza nelle operations a disposizione come advisor o champion.

Anche tu vanti un’importante esperienza professionale all’estero, tra cui oltre cinque anni in Silicon Valley. Possiamo ancora pensare che un ecosistema come la Silicon Valley possa nascere in Italia o trattasi di un modello già superato?

L'ecosistema Silicon Valley è nato da una combinazione di accesso al talento (e.g., Stanford, Berkeley), al capitale (e.g., Sand Hill Road) e cultura del rischio. Questo ha creato un circolo virtuoso, che ha permesso a molte idee brillanti di divenire realtà in poco tempo. A mio parere, l'ecosistema è attualmente sotto pressione dal punto di vista talento (con trend tipo great resignation o lavoro da remoto) e capitale (con surplus e valutazioni eccessive).
Ritengo difficile adattare un modello del genere in Italia, in particolare per l'accesso al talento e la cultura del rischio. Penso che in Italia esista ancora una forte propensione a cercare il posto fisso in una realtà stabile (magari con meno prospettive), invece che a rischiare in una start-up sconosciuta. Inoltre, l'Italia ha più difficoltà ad attrarre talento internazionale a causa sia del quadro legislativo sia della barriera linguistica che ancora esiste.
Inoltre, a mio parere, c’è ancora da lavorare sull’educazione al settore start-up e sulla collaborazione con le università. Quando mi sono laureato al Politecnico di Torino non avevo idea di come funzionasse una start-up e non avrei mai considerato una carriera in quell'ambito.

Quali sono gli ostacoli più importanti che gli imprenditori devono affrontare per avviare una startup al di fuori degli Stati Uniti? Quanto è importante avere una propensione a rischiare e a fallire?

1) Dimensione e rapidità di accesso al mercato 2) Accesso al capitale umano 3) Accesso al capitale finanziario

1 - Dimensione e rapidità di accesso al mercato. Negli Stati Uniti, un imprenditore ha immediato accesso a un mercato di 300M persone, e può' 'vendere' in 50 stati che hanno la stessa lingua, gli stessi servizi e generalmente le stesse regolamentazioni. Inoltre, il quadro legislativo è favorevole all'innovazione, e offre processi veloci e snelli per registrare e lanciare una nuova idea. Lo stesso imprenditore in Italia si trova di fronte a un mercato più frammentato e a processi più lenti.

2 - Accesso al capitale umano. In US, non è inusuale per un senior executive di una grande azienda lasciare la posizione di rilievo per 'rischiare' in una start-up. Inoltre, un curriculum con un'esperienza imprenditoriale - anche se fallita - è molto apprezzato da piccole e grazie aziende. In Italia questo è meno comune, ed è quindi generalmente più difficile creare un team di alto livello con l'esperienza adatta a fare scale-up. In questo senso, IAG ha un fortissimo valore aggiunto, supportando e andando a completare le competenze del founding team.

3 - Accesso al capitale. Nonostante in Europa l'ecosistema dei VCs e angel investors per il finanziamento negli early stage sia molto maturato negli ultimi anni, le opportunità di finanziamento rimangono comunque inferiori.

Sei in IAG da due anni, cosa ti ha sorpreso di più?

Prima di tutto, il valore e la passione della community di angels e advisor. La multidisciplinarità della community permette di valutare l'investimento da prospettive diverse, e di trovare esperti nello specifico settore/mercato. Apprezzo particolarmente le discussioni di approfondimento dopo le riunioni soci, con dibattiti spesso accessi e appassionanti.
Inoltre, mi ha fatto piacere constatare la disponibilità degli altri soci a dialogare anche al di fuori delle riunioni. Questo mi ha permesso di allargare ulteriormente il mio network nonostante la distanza fisica dall'Italia.
Infine, sono stato positivamente sorpreso dalla professionalità e organizzazione del team IAG - in particolare in fase di presentazione e due diligence dei deal. Un vero valore aggiunto per chi, come me, segue le attività solo part-time.