9 novembre 2022

L’Italia può essere un Paese per startup - di Corrado Passera



“Quale limite dobbiamo porci?” “Nessuno”.

Iniziava così, dieci anni fa, il viaggio dello Startup Act. Con un’esortazione precisa a volare alto, per andare a scuola dai migliori del mondo, tornare a casa e mettere in pratica le lezioni apprese. Senza limiti e senza preclusioni. Solo così avremmo potuto rendere l’Italia un Paese per startup.

A giugno 2022, il Registro delle imprese ha contato 14.734 startup e nell’ultimo anno il venture capital italiano ha superato i 1,9 miliardi di euro (+221% rispetto al 2020)1. Questo vuol dire che ci siamo riusciti? Che l’Italia è diventata un Paese per startup? Sicuramente lo è più di prima, ma ancora molto resta da fare. E per fare, bisogna prima ascoltare. Per questo, la prima, grande, innovazione dello Startup Act, fu il metodo con cui codificammo la normativa.

Scelsi 12 pionieri dell’innovazione e a loro chiesi di trovare le migliori best practice mondiali nel settore. Tornarono e mi dissero: «Se riuscissimo a realizzare anche solo il 50% di ciò che abbiamo visto, l'Italia sarebbe un Paese diverso». «Perché fermarci al 50% - risposi - Puntiamo a realizzare il 100%». Con questo spirito, iniziammo il confronto con tutti coloro che di startup se ne intendevano, con i ministeri competenti e con i partiti. Il progetto venne approvato a larga maggioranza malgrado il nostro Governo fosse già dimissionario ed è tutt’ora, una delle – poche – leggi che non è stata drammaticamente stravolta, piuttosto aggiornata e migliorata con il susseguirsi dei vari Governi.

Perché dico che questo approccio fu rivoluzionario? Perché le startup non sono aziende come tutte le altre, hanno bisogno di strumenti e normative ad hoc. E solo conoscendo a fondo questo mondo, è possibile comprenderlo. Così, seguendo l’esempio dei Paesi più avanzati, riformammo la legislazione sul lavoro, il diritto civile per la costituzione di nuove aziende, gli incentivi, il diritto fallimentare – forse il campo più ostico - e la modalità di raccolta di equity e di credito attraverso il crowdfunding. Fu un successo. Ma i successi – nostri e degli altri – vanno sempre riconosciuti, apprezzati e valorizzati, per poi riuscire a fare ancora meglio. Per questo, le misure per sostenere l’ecosistema dell’innovazione in Italia sono tutt’altro che terminate.

Le startup sono figlie delle competenze e dello spirito imprenditoriale. Le idee innovative per diventare imprese hanno bisogno di incubatori, di acceleratori. Le startup, ma soprattutto le scale up hanno bisogno di venture capitalist. Dovremmo lavorare a largo spettro, non in un unico settore, perché le startup devono poter nascere in ogni campo. Dovremmo favorire il venture capital, con attenzione a ciò che può e deve fare il pubblico e sapendo che il venture capital ha ancora una dimensione anche nazionale. Basti guardare alla Francia e alla recente legge tedesca con cui ha mobilitato 30 miliardi di euro per favorire il rafforzamento del venture. L’Italia ha creato un buon modello di VC attraverso CDP ma dobbiamo fare di più per finanziare i venture capital privati ancora troppo piccoli, lavorando non in un’ottica di concorrenza tra pubblico e privato, ma con una logica premiale. Il pubblico deve incentivare il privato che investe, agendo da booster. Per fare un passo avanti significativo servono almeno 5 miliardi da dirottare dal risparmio previdenziale attraverso opportuni incentivi e “moral suasion”. Servono fondi di fondi specializzati e gestiti dai migliori operatori internazionali. Le Amministrazioni Pubbliche, soprattutto locali, potrebbero e dovrebbero fare molto anche per rendere i territori più accoglienti per gli startupper, accompagnandoli dal punto di vista burocratico e aprendo le porte del procurement pubblico. Al tempo stesso, dovremmo lavorare sulla cultura del rischio e del fallimento, senza timore o soggezione. Ai giovani, nelle scuole, dovremmo dire che provare si può. Che il lavoro non va solo cercato, ma anche creato. E che è possibile sbagliare, è normale fallire, ma anche dagli errori si impara. Dovremmo essere ambasciatori della cultura del “si può”, portando avanti esempi positivi, accompagnando sempre la teoria alla pratica, unendo realmente le generazioni. Voi di IAG lo sapete bene: molto spesso le startup migliori sono quelle che partono dall’idea brillante di un giovane e poi vengono accompagnate da un management esperto. L’innovazione nasce così.

Inoltre, non vergogniamoci di guardare chi è più bravo di noi. Se qualcuno, dal punto di vista normativo e organizzativo, ha già trovato la migliore soluzione possibile, facciamola nostra. Copiamola e andiamo avanti, valorizzando i campi in cui noi, come Italia, siamo eccellenti. Nel mondo globalizzato – e rimarrà globalizzato anche se con fattezze diverse – si vince con eccellenza e unicità e l’Italia ne può schierare moltissime. Senza mai illudersi che si possa vivere di rendita. Ricordiamoci che il confronto resta sempre la chiave più importante per la crescita. E non confrontiamoci con chi va peggio di noi o con il passato, guardiamo al più bravo del mondo, chiediamoci perché lui sia più bravo di noi e facciamo di tutto per essere a nostra volta migliori.

Perciò, se come dieci anni fa, qualcuno mi chiedesse: “Quale limite dobbiamo porci?”, risponderei, senza dubbio alcuno: “Nessuno”.

Questo è il futuro. Questo è ciò che serve per rendere l’Italia un Paese per startup.

1Fonte: Ministero dello Sviluppo Economico