18 settembre 2023

Le persone al centro della crescita - Intervista ad Anna Benini



Anna Benini è una psicologa organizzativa, specializzata in Risorse Umane Strategiche presso l’Ecornell University e in gestione del cambiamento al MIT di Boston. Ha conseguito un Global Executive MBA in SDA Bocconi. Ha un’esperienza ventennale in ambito HR, M&A, Turnaround, Talent Management, Recruitment, L&OD e allineamento della strategia di business alle risorse umane in Italia e all’estero.

Anna è anche un'imprenditrice di seconda Generazione nel campo del Real Estate e delle Energie Rinnovabili. Nel 2020 fonda LianeCare, una piattaforma di flexible benefit focalizzata a umanizzare i luoghi di lavoro. Per 4 anni è stata Presidente di PWN Rome, un’organizzazione globale senza scopo di lucro che mira a ridurre il gender gap in ambito lavorativo e sociale. È tutt’ora coinvolta attivamente nella promozione di una cultura dell’inclusione di genere ed è business angel di Italian Angels for Growth (IAG). Conosciamola meglio.

Dopo oltre 20 anni di esperienza in ambito Direzione Risorse Umane in Italia e all’estero, hai capito che non bisogna solo standardizzare i processi, bensì che questi vadano disegnati mettendo al centro le persone. Puoi raccontarci qualcosa in più?

Grazie per questa domanda, che mi permette subito di andare oltre gli slogane spiegare meglio cosa significa mettere le persone la centro di una organizzazione senza troppe ipocrisie e mantenendo una chiara visione di business. Nelle prime fasi della mia carriera ho lavorato nelle sedi italiane di multinazionali estere e al corporate di un’azienda che all’epoca aveva oltre 60.000 dipendenti e presenza in 150 Paesi. È evidente che automatizzare i processi e utilizzare dei sistemi HR era una necessità con un numero così grande di risorse che operavano globalmente, ma la differenza nella performance economica di un’azienda non la fanno i processi e i sistemi.
Tali elementi rappresentano una condizione assolutamente necessaria, in assenza dei quali HR viene percepito come il burocrate e il passa carte, con cui nessuno vuole avere a che fare in azienda, ma non sono aspetti sufficienti per fare la differenza. Per fare la differenza bisogna cercare di spingere le persone e l’organizzazione a dare il meglio di sé. Per ottenerlo è necessario ascoltare a fondo le persone, le loro motivazioni, cosa accade nella loro vita e a volte andare anche oltre ad un ascolto puramente testuale per essere empatici. Questo ascolto inizia nella fase di selezione per poi cercare di trovare il giusto allineamento tra individuo e azienda in ogni fase della carriera lavorativa. Aggiungo che a mio avviso HR ha un grandissimo ruolo di disambiguazione in azienda laddove, come spesso accade in alcune culture, c’è maggiore necessità di un interprete tra il business e le persone.

Nel tempo, oltre alla tua esperienza di Dirigente HR, mamma, moglie, caregiver di un padre malato di tumore, hai raccolto infinite storie di uomini e donne. Perché è importante considerare la persona in quanto tale anche come essere umano per prendere le decisioni giuste e valorizzare quei comportamenti che sono importanti per la crescita in azienda?

Ovviamente mi sono accadute cose che nella vita sono normali, eventi che accadono a tutti. Avere un compagno, dei figli, perdere un genitore, un amico, ridere, piangere, avere paura……. Quando io ho iniziato a lavorare tutta questa umanità era tenuta lontano dai luoghi di lavoro, in modo direi anche tenacemente volontario. Ricordo ancora un episodio per me emblematico, oggi forse quasi impensabile che mi accadde nel 2012. Il feed di Facebook mi propose come contatto il presidente della mia Region - con cui lavoravo quotidianamente - e io ingenuamente gli chiesi la amicizia. Mi arrivò subito una risposta molto gentile che diceva “io accetto solo gli amici su Facebook”. Posto il fatto che è sacrosanto che ognuno accetti chi meglio crede tra i propri contatti, è stata proprio questa distinzione netta tra gli ambienti che mi ha sempre sconcertato. Di formazione sono una psicologa del lavoro e quindi so che in quanto esseri umani portiamo la nostra identità nei luoghi di lavoro, come a casa. Certo il ruolo organizzativo che si ricopre impone certi comportamenti, ma più io mi adeguo a quanto richiesto tradendo me stesso, più creerò una disconnessione con i miei bisogni che può avere delle ripercussioni su me come persona, ma anche sul mio modo di lavorare. Allo stesso modo, se mi capita qualcosa di grave o un evento importante nella mia vita personale forse sarò anche al lavoro (Presentismo), ma la mia testa probabilmente sarà altrove. Ecco, Il covid-19 sicuramente ci ha restituito in modo chiaro che c’è una vita oltre al lavoro, delle case, delle famiglie, degli amici, insomma delle dimensioni che non possono più essere scotomizzate e non considerate. Questo significa che l’azienda deve farsi portatrice di questa visione umana e deve tenerne conto nelle sue politiche in modo reale e non solo propagandistico.

Quali sono stati i momenti di difficoltà che hai incontrato quando hai scelto di diventare un’imprenditrice?

Mi annoio in fretta, ho bisogno di continui stimoli intellettuali che spesso genero io, ecco perché nella mia vita ho fatto quella che viene definita una carriera non lineare: sono stata una dipendente, una consulente, ho gestito un passaggio generazionale nelle aziende familiari, poi imprenditrice e grazie a IAG anche investitrice. Questi cambiamenti non sono stati mai semplici, perché hanno richiesto un ri-mettermi in gioco totale, tantissimo studio e una capacità di decodifica di contesti a volte molto distanti tra loro. Oggi questa varietà di esperienze è una mia unicità, che negli anni mi ha consentito di creare una rete molto allargata e differenziata che mi ha aiutato. I momenti di difficoltà come imprenditrice sono stati tanti e ci ho messo tanto tempo per sentirmi a mio agio in questa veste. Se dovessi sintetizzarli direi che per me è stato molto difficile adattarmi alle montagne russe emotive giornaliere a cui ero esposta e altrettanto difficile è stato imparare ad essere paziente: la prima azienda che ho venduto ad un fondo di investimento nel 2020 ha richiesto un focus e uno sforzo molto lunghi nel tempo. Anche trovare le persone che non solo credessero nel mio progetto, ma che fossero allineate a me valorialmente non è stato facile e spesso ho peccato di presunzione in questo. Quando ho fatto compromessi si sono rivelati un disastro per il business. Un altro esempio: in LianeCare ricordo ancora che dopo pochi mesi dalla prima raccolta fatta da Family & Friends ero pronta a mollare, perché sentivo la pressione del fallimento, ma anche di stare tradendo la fiducia di persone che mi avevano dato credito perché mi conoscevano. E qui è successa la magia del lavorare con persone e investitori allineati perché, dopo una analisi mi hanno spronato a continuare. D’altronde un’azienda può avere successo solo se esiste. Inoltre, io provenivo da un mestiere specialistico di fatto dove la competenza mi guidava nella presa di decisione. Espormi in prima persona su tutto avendo ogni giorno dubbi su quello che stavo facendo e riscontrando spesso negli altri una curiosità mista a sorpresa nell’avere a che fare con una imprenditrice donna, sono stati degli ulteriori ostacoli da superare.

Da diversi anni ti sei avvicinata anche al mondo dell’angel investing. In IAG sono attivi oltre 300 business angel impegnati ad ottenere insieme quello che è difficile raggiungere come singoli individui: condivisione di esperienze, circolazione di conoscenze, migliore gestione del rischio, riduzione dei costi di due diligence e di ricerca delle opportunità di investimento. Quali consigli per chi fa risorse umane in una startup?

Sono molto contenta di essere entrata in IAG e di potere imparare ogni giorno qualcosa di nuovo su questo mestiere da grandissimi professionisti mettendo le mani in pasta e facendo investimenti in prima persona.

Fare risorse umane in una start up ha delle sue peculiarità (ne ho scritto qui se qualcuno vuole approfondire) e per molto tempo è una attività nelle mani del Founder. I fondamentali del lavoro sono gli stessi ma la dimensione e lo stadio in cui si trova il business impattano molto sulle priorità HR da seguire.

Tra le 8 priorità HR a cui un founder dovrebbe prestare attenzione quando inizia a fare start up, selezionerei come must-have imprescindibili queste:

Iniziare da sé stessi: un'elevata consapevolezza di sé, delle proprie abilità, incluse le soft skill, porta a migliori prestazioni del team.

Assumere persone che capiscono l’importanza del cliente: i clienti consentono di capire se il prodotto funziona e aiutano a migliorarlo, solo se sono al centro delle decisioni e dei processi della start up.

Allineare la performance continuamente: fissare obiettivi, definire output e KPI, fornire feed-back continuo a tutti e individuare i momenti giusti per lo sviluppo.

Reclutare lentamente, ma chiudere rapidamente: prendere il tempo necessario per identificare le persone giuste da inserire, ma se le cose non funzionano essere molto veloci a prendere la decisione di chiudere.

In Europa, e soprattutto in Italia, c’è sempre stata una cultura avversa al rischio e contro il fallimento, che è un fattore critico di successo per chi fa innovazione. La sconfitta è davvero un fallimento o un’opportunità di crescita?

Il tema del fallimento, fortunatamente, comincia ad essere più accettato nella nostra cultura, a partire dalla scuola, dalla famiglia per arrivare al lavoro. C’è senza dubbio ancora molto da fare in termini culturali per fare comprendere che essere perfetti non è vantaggioso per la salute, perché obbliga a standard ideali, ma ha anche delle ripercussioni sui risultati che produciamo. Nel tentativo di essere perfetti, di fare cose perfette, si continua a procrastinare o ad evitare situazioni e non si arriva mai al successo. Quindi il fallimento è senza dubbio una opportunità, ma si deve avere il giusto mindset nell’affrontarlo. Questo mindset, definito anche growth mindset dalla psicologa C. Dweck, deve essere sviluppato fin da piccoli e va allenato cercando di uscire il più possibile dalla propria zona di confort, non solo sul lavoro ma anche nella vita, per adottare un approccio di apprendimento continuo: “non fallisco, ma imparo”. Se mi guardo indietro per me l’esperienza più significativa in questo senso non è stata un’esperienza di lavoro, ma un viaggio che ho fatto per 6 mesi da sola come backpaker in Sud America alla fine della università: ho imparato una lingua che non conoscevo, essendo sola ho dovuta chiedere moltissimo e dipendere dagli altri per capire cosa fare, ho imparato cose banali ad esempio mangiare da sola in un ristorante e queste esperienze si sono radicate in me, aumentando il mio senso di auto-efficacia. Quando poi sono stata espatriata per lavoro più volte fuori dall’Italia ho affrontato gli incarichi e i cambiamenti connessi a queste esperienze con molta più facilità. Ancora un esempio di come il confine tra personale e professionale sia molto permeabile…