03 ottobre, 2025

La fintech italiana è morta? Spoiler: non proprio.



La fintech italiana non è morta: dopo anni di rallentamenti dovuti a banche chiuse, regolamenti complessi e fuga di talenti, alcune startup hanno raccolto centinaia di milioni. L’ecosistema cresce grazie a nuovi fondatori, consumatori esigenti e regolamentazioni più favorevoli. Il successo richiede pazienza, disciplina e reale creazione di valore.

Nell’ecosistema venture italiano, una frase viene ripetuta come un mantra: “qui non c’è fintech”. Il racconto comune dipinge l’Italia come un deserto, dove le startup non possono crescere perché le banche bloccano l’innovazione, i regolatori rallentano tutto e la burocrazia strangola ciò che resta. Rispetto a Londra, la capitale fintech europea per eccellenza, Milano sembra davvero tranquilla.

Ma è davvero così? Non proprio. Guardando più da vicino, si vede che la fintech italiana non è morta. Lontano da questo. I semi di un nuovo ecosistema sono stati piantati e stanno già evolvendo in aziende che contano.

Per decenni, il settore finanziario italiano è stato molto chiuso. Le grandi banche (non serve fare nomi) controllavano gran parte della fiducia, della distribuzione e delle relazioni con i clienti. Questo lasciava ai fondatori fintech due opzioni dolorose: passare anni a scavalcare muri regolatori, oppure nascondersi dietro gli incumbent come fornitori white-label. Entrambe le strade rallentavano tutto.

Nel frattempo, altrove in Europa, i regolatori hanno tirato la leva opposta. Il sandbox della FCA del Regno Unito e le regole di open banking hanno messo Londra in overdrive fintech, mentre l’Italia è rimasta bloccata con leggi frammentate, licenze complicate e una cultura che ancora sussurra “prima il permesso, poi l’innovazione”. Anche il flusso di talenti non ha aiutato. Troppi dei migliori ingegneri, product designer e persino ex-banchieri italiani hanno deciso di partire, direzione Londra, Berlino, Parigi o Dubai, in cerca di sfide più grandi. Gli investitori hanno seguito logiche simili. I VC locali preferivano mondi più ordinati e meno controversi, come SaaS non ambiziosi, healthtech e marketplace. La fintech sembrava disordinata, rischiosa e appesantita da problemi di compliance. Per anni, il risultato è stato prevedibile: facile credere che in Italia non succedesse nulla.

Eppure i deserti nascondono oasi. Negli ultimi anni le fintech italiane sono riuscite a raccogliere centinaia di milioni. Scalapay è diventata un unicorno BNPL con oltre 700 milioni di dollari, Satispay ha raccolto 320 milioni di euro ed è oggi una delle reti di pagamento indipendenti più grandi d’Europa; Aidexa ha combinato equity e debito per costruire il lending alle PMI su larga scala, Moneyfarm… e intorno a questi altri nomi, come Smartness, Sibill, Qomodo, Tundr, Homepay, Subbyx, Pillar, Tot, BonusX e molti altri, hanno ciascuno raccolto round che sfidano il mito del deserto. L’ultimo report di Growth Capital lo conferma: nella prima metà del 2025, la fintech non era un settore fantasma, era uno dei vertical più importanti per capitale investito. L’ecosistema è tutt’altro che arido…

L’Italia fiorisce tardi, ma a modo suo. Una nuova generazione di fondatori è più forte, molti formati in ecosistemi internazionali, in scale-up, aziende blue-chip o persino all’interno di banche tradizionali prima di decidere di rompere gli schemi e costruire. Le valutazioni restano ancora 20-30% più basse rispetto al Nord Europa, uno sconto che rende l’Italia particolarmente attraente per gli investitori disposti a scommettere sul medio termine. I consumatori, in particolare Millennials e Gen Z, stanno cambiando le regole del gioco. Si aspettano servizi finanziari mobile-first, trasparenti e istantanei, e diventano sempre meno tolleranti verso la lentezza delle banche tradizionali. A questo si aggiunge la dimensione del mercato domestico, 60 milioni di persone, una delle più alte densità di POS in Europa, flussi di pagamento da 300 miliardi di euro, forte penetrazione delle carte e rapida adozione di BNPL e wallet, rendendo sempre più difficile ignorare l’opportunità fintech italiana. La regolamentazione, sempre un punto critico, si sta muovendo: PSD3 e il wallet di identità digitale dell’UE promettono di abbassare le barriere e rendere più facile scalare cross-border che mai.

La storia non riguarda solo il potenziale; riguarda anche ciò che gli investitori stanno già vedendo sul campo. In IAG, negli ultimi 12 mesi, abbiamo assistito a questo slancio in prima persona, supportando modelli come Pillar, che reimmagina l’intersezione tra costruzione e finanza; LEASY, che apre il finanziamento di veicoli ai gig worker in America Latina; una startup stealth che estrae valore finanziario dai prodotti a fine ciclo; Subbyx, una piattaforma che offre accesso agli ultimi prodotti tech smartphone, tablet e laptop attraverso un modello di abbonamento flessibile; e Homepay, che costruisce l’infrastruttura di pagamento nel settore immobiliare.

Certo, il denaro conta. Ma contano anche le persone. Per questo organizziamo incontri sui rooftop dove fondatori, operatori e investitori si incontrano. Perché un ecosistema non cresce solo sul capitale: cresce sulle connessioni, sulle conversazioni e sulla fiducia.

Questo mostra qualcosa di importante sul venture capital: i grandi successi fintech non arrivano da un giorno all’altro. Alcune startup possono raggiungere rapidamente ricavi, soprattutto con l’AI, ma inseguire solo vittorie veloci significa perdere le aziende che crescono lentamente e rimodellano interi mercati. Stripe, Adyen, Nubank: tutti hanno impiegato anni per costruirsi. Probabilmente anche la fintech italiana ha bisogno della stessa mentalità, uno spostamento dall’hype e dai guadagni rapidi verso pazienza, disciplina, network forte e reale creazione di valore, dove serve costruire fiducia e brand awareness con i consumatori.

Pochi giorni fa ho parlato con un fondatore che lo ha detto chiaramente: l’hype intorno alla crescita istantanea e ai lanci appariscenti può essere fuorviante. Molti prodotti sembrano ottimi in demo, ma falliscono quando gli utenti reali li provano. Anche le grandi aziende cadono in questa trappola. Creare valore reale richiede tempo, attenzione ai dettagli e focus sul risolvere problemi veri. Le vittorie rapide attirano titoli, ma l’impatto a lungo termine arriva facendo le cose per bene, partendo dal reale dolore degli utenti, e la fintech è probabilmente il settore che più di tutti ha bisogno di questo approccio.

La fintech italiana, dunque, non è morta, sta solo maturando secondo un calendario diverso. Ciò che sembrava un deserto pochi anni fa ora mostra segni di resilienza, creatività e slancio lento ma costante. I veri vincitori saranno coloro che resistono alla tentazione delle scorciatoie e si impegnano a risolvere problemi reali con disciplina e perseveranza. Se la storia può insegnare qualcosa, le rivoluzioni fintech raramente avvengono in un lampo: si costruiscono strato dopo strato. L’ecosistema italiano può aver iniziato più tardi rispetto a Londra o Berlino, ma le fondamenta si stanno creando, i talenti stanno tornando e il capitale sta fluendo. Chiamalo un “late bloom” se vuoi, ma un fiore è, e sta appena sbocciando.