30 aprile, 2025

C'era una volta, un founder italiano lontano, molto lontano...



I founder italiani che scelgono di costruire all'estero lo fanno per maggiore libertà creativa, portando con sé idee, visione e resilienza. Non si tratta di una perdita per l'Italia, ma di una connessione globale che dimostra come il mindset italiano sia in grado di prosperare ovunque.

Se mi conosci, sai quanto questo tema mi stia a cuore. Non è solo un interesse passeggero o una curiosità professionale, è qualcosa che sento profondamente. Forse è la prima volta che mi siedo davvero a scriverne, e non semplicemente a parlarne in un messaggio vocale, durante una chiamata o a cena con amici. Ma sento che è arrivato il momento di condividere qualcosa di più.

Negli anni si è parlato tanto del cosiddetto “brain drain”, la narrazione secondo cui i giovani italiani lasciano il Paese in cerca di migliori opportunità altrove. Ma non è di questo che voglio parlare. Voglio raccontare un’altra storia. Il web è già pieno di bellissimi racconti di founder italiani che costruiscono imprese in Italia, e meritano tutta l’attenzione che ricevono. Ma oggi voglio accendere i riflettori su un percorso diverso, altrettanto interessante: quello degli italiani che scelgono di costruire all’estero.

Non si tratta di andare in Erasmus, di lavorare in una multinazionale a Londra, o di lanciare uno stile di vita da nomade digitale da Lisbona. Si tratta di costruire qualcosa di vero. Da zero. Da Berlino, Parigi, San Francisco o New York (lo abbiamo visto nei nostri Innovation Trip con gli angel di IAG, per imparare da ecosistemi più maturi). È una generazione di italiani che non esporta solo cibo, moda o design, ma idee, codice, visione. E una volta arrivati, spesso restano. E, altrettanto spesso, trasformano il mondo che li circonda.

Per anni mi sono chiesto: perché? Perché succede? Perché sembra così naturale (persino necessario) per i founder di talento lasciare l’Italia e costruire altrove? Perché è diventata la norma, non solo per chi lavora o fa ricerca, ma per chi crea?

Non esiste una sola risposta, ma ci sono pattern evidenti. Ecosistemi più maturi. Accesso più facile al capitale. Una cultura che tollera il fallimento (a volte persino lo celebra). In Italia, se fallisci una o due volte, c’è chi inizia a dire che forse non è la tua strada, o che porti sfortuna. Aggiungi la burocrazia, i ritmi lenti, la mancanza di vere reti di supporto, e capisci perché molti founder guardano altrove. Città in tutta Europa e nel mondo offrono comunità di investitori più forti, connessioni globali, cicli di feedback più rapidi. Perché non provarci?

Questo non vuol dire che costruire in Italia sia impossibile o inutile, tutt’altro. Ci sono founder straordinari che ogni giorno dimostrano che l’Italia può essere terreno fertile per l’innovazione. Mi sono sempre chiesto perché. Perché scegliere questa strada? Credo di conoscere la risposta. Perché costruire qualcosa da zero non è solo una scelta di carriera, è una missione. E chi accetta questa missione in Italia, contro ogni pronostico, merita tutta la nostra ammirazione.

Detto questo, è impossibile ignorare il numero crescente di storie di successo di founder italiani all’estero. Eight Sleep. Kong. Aspire. TrueLayer. Pleo. Sysdig. Tether. E sì, anche Anthropic (sì, potrei contare anche quella). Ce ne sono molte altre, troppe per elencarle tutte qui — e sinceramente, probabilmente le conosci meglio di me. Cosa hanno in comune? Perché hanno funzionato fuori, e perché forse sarebbe stato quasi impossibile se fossero rimasti in Italia?

Forse non esiste una formula. O forse la formula è semplicemente: essere italiani. Lo so, suona strano. Ma seguimi. Essere italiani, in questo contesto, non riguarda i cliché o gli stereotipi. Non è pizza, pasta o gesticolare. È qualcosa di più profondo. Un’attitudine creativa, un senso dell’improvvisazione, una certa sensibilità estetica che si riflette anche nei prodotti digitali. È resilienza. È la capacità di far succedere le cose nonostante gli ostacoli, perché sei cresciuto in un posto dove gli ostacoli sono la normalità. Questa combinazione è potente. E viaggia bene.

Uno dei miei podcast preferiti, Made IT, termina ogni episodio con una domanda che adoro: “In che modo l’essere italiano ti ha aiutato a superare le sfide?” Ogni risposta è diversa, ma c’è sempre un filo conduttore di orgoglio, un riflesso di qualcosa di unico che gli italiani portano con sé quando partono. Non è mai facile parlare del Paese che si è lasciato alle spalle, ma quelle storie portano sempre con sé una forza silenziosa e un profondo senso di identità.

Allora, qual è il punto? Non si tratta di convincere qualcuno a restare. In un mondo globale, il talento si muoverà sempre. Ma forse è il momento di smettere di chiamarla una perdita. Forse dovremmo iniziare a vedere i founder italiani all’estero non come persone che sono andate via, ma come ponti. Connettori. Perché quando hanno successo, non è solo una vittoria loro. È una vittoria per tutti noi. In un mondo dove i confini non fermano le idee, i founder italiani all’estero non stanno fuggendo — stanno costruendo qualcosa di più grande. E forse, grazie a loro, l’Italia un giorno diventerà un posto dove le startup non solo nascono… ma decidono anche di restare.

Che sia a Milano o a San Francisco, Parigi o Londra, essere italiani non è un limite. È un mindset. E ovunque scegliamo di costruire, è qualcosa che ci portiamo dentro, con orgoglio.