4 luglio 2022

Sliding doors: la lezione di Musement



Il tempismo, nella vita, è tutto. E lo è ancora di più se operi nel campo dell’innovazione. Riuscire a capire quando è il momento per investire, quando è l’ora di apportare dei cambiamenti, quando bisogna lasciare andare, terminare l’avventura o – nel migliore di casi – intraprendere altre strade fatte di exit e acquisizioni, è cruciale. Ed è questa la lezione più importante che custodiscono – e diffondono – Marco De Guzzis e Alessandro Petazzi, entrambi volti importantissimi della storia di Musement, la startup diventata scaleup che ha conquistato il mondo scommettendo sul turismo culturale italiano.

De Guzzis, manager e Business Angel, nonché CEO, responsabile di Business Unit e Direttore in ambito marketing, pianificazione e strategia sia in grandi gruppi come Toro Assicurazioni, Gruppo De Agostini e Invitalia, sia nel mondo delle PMI nei settori di arte, editoria, assicurazioni, beni di lusso, è stato board member di IAG e nella sua carriera ha investito in oltre 10 startup. Tra queste, Musement, di cui è stato Champion e board member. Un progetto nato dall’intuizione di Alessandro Petazzi e dei suoi soci, Claudio Bellinzona, Fabio Zecchini e Paolo Giulini, uniti da un’ambizione chiara: creare uno degli aggregatori online più importanti al mondo nella proposta di attività esperienziali artistico – culturali dedicate ai viaggiatori.

Petazzi, da dove nasce il sogno di Musement?

Petazzi: «Premessa: la nostra non è una storia fatta di garage mitologici, quanto piuttosto di tante sliding doors. Io ho sempre saputo che avrei voluto fare l’imprenditore, ma durante il periodo universitario mi ero convinto che avrei potuto farlo solo dopo una certa età e una certa gavetta. Così ho avviato la mia carriera con un percorso più tradizionale, per quanto importante: dopo la laurea in Economia Aziendale all’Università Bocconi di Milano e presso la Copenaghen Business School, ho lavorato per le Nazioni Unite a New York, a seguire per JP Morgan e Londra e infine per la società di consulenza strategica Bain & Co, in Italia. Ma mi sono accorto molto presto che nessuno di quei percorsi, per quanto eccellenti, era ciò che stavo cercando. Così, incontrai la mia prima “porta scorrevole”: il responsabile del mio team in Bain aveva lavorato in Omnitel (oggi Vodafone Italia) con Carlo Micheli e Silvio Scaglia, che all’inizio del 2000 stavano lavorando alla creazione di quello che poi sarebbe diventato il colosso Fastweb. Decisi di mollare il percorso iniziato, quindi una carriera promettente in una delle più grandi società di consulenza al mondo, per lavorare con una ventina di altre persone alla costituzione di una realtà del tutto nuova. Mi ritrovai a fare il ragazzo di bottega ed era esattamente ciò che stavo cercando. Lavorare con Micheli e Scaglia fu per me una scuola fantastica. Ero divertito, stimolato, coinvolto. In quegli anni feci esperienze straordinarie e incontrai quelli che sarebbero diventati i miei futuri soci. Restai in Fastweb fino al 2008, occupandomi della divisione TV e digital media: eravamo tra i primi al mondo a lavorare sul video-on-demand e la TV in streaming. Netflix spediva ancora Dvd per posta, tanto per dire. Dopo l’acquisizione di Fastweb da parte di Swisscom però, i fondatori decisero di uscire e di lì a breve anch’io presi la stessa decisione. Prima fondai ON CUBED, società di consulenza specializzata nell’aiutare operatori PayTV di varie nazioni (come SKY, UPC, Starhub, SiOL) e aziende di consumer electronics a lanciare contenuti e app su varie piattaforme, poi, nel 2013 decidemmo di unire le competenze e le passioni reciproche per fondare con Claudio, Fabio e Paolo quella che sarebbe diventata Musement. Paolo in particolare conosceva molto bene il mondo dell’arte, avendoci lavorato per anni, e aveva molti contatti nel mondo museale e insieme ci eravamo convinti che creare un servizio che facesse leva su uno dei punti di forza dell’italianità nel mondo, ovvero il turismo e la cultura, potesse permetterci di creare un’azienda davvero globale. Ci eravamo resi conto che il sistema di acquisto dei biglietti per i musei era molto frammentato, da lì l’idea di creare un unico punto di accesso online. Pensate, all’inizio volevamo chiamarlo We-Art, poi arrivammo a Musement. Un nome che avrebbe fatto la nostra fortuna tra i viaggiatori stranieri: richiamava infatti non solo all’idea dei musei, ma anche a quella più trasversale dell’amusement, dell’intrattenimento. Ricordo ancora il primo acquisto. Venne fatto da una docente di un liceo americano che comprò un biglietto per visitare il Cenacolo. Wow, pensammo! Quella donna ci aveva dato fiducia, ai suoi occhi eravamo affidabili anche se eravamo ancora solo un embrione di azienda! Era arrivato il momento di credere davvero nella nostra idea, per questo, decidemmo di lasciare le altre attività e di concentrarci a tempo pieno su Musement».

De Guzzis, la tua è una storia diversa che si incrocia, a un certo punto con quella di Petazzi. Raccontaci come ti sei avvicinato al mondo delle startup e di IAG.

De Guzzis: «Io ho sempre lavorato in grandi gruppi, sono state esperienze bellissime, ma nelle quali finivo per ritrovarmi in qualche modo imprigionato all’interno di un unico settore. Io, invece, volevo varietà e innovazione. A portarmi verso il mondo delle startup, perciò, è stata la mia curiosità. Ma non volevo, da business angels, limitarmi a osservare le imprese e a fare la mia puntata per mera finalità economica. Volevo farmi coinvolgere completamente, dallo scouting alla mentorship al board. Per questo, quando in una cena di laureati Luiss, Luigi Capello mi fece scoprire IAG decisi subito di aderire. E non me ne sono mai pentito. Insieme abbiamo fatto un percorso molto bello e avvincente, Musement è uno dei momenti più significativi di questa avventura».

Cosa hai pensato quando ti è stato sottoposto il loro progetto?

De Guzzis: «Anzitutto, ho valutato molto positivamente il loro voler far leva sull’italianità. È un consiglio che do sempre a tutte le startup: puntate su un elemento di unicità e territorialità. L’essere italiani, se sapete come valorizzare questo aspetto, può essere una chiave straordinaria a livello globale. Musement era riuscita a farlo. Inoltre, aveva saputo differenziarsi con il suo team: mi sono trovato davanti persone molto competenti che hanno saputo mettersi in gioco e ripensarsi, non tirandosi indietro nei momenti più difficili. Questo è un aspetto fondamentale. Non credo tanto all’idea dei founders visionari chiusi nei garage. Fai bingo quando trovi un fondatore che è capace di grande equilibrio per affrontare sia i momenti di entusiasmo che le delusioni. Una startup, infatti, è per sua natura sempre sbilanciata, vive forti tensioni. Le persone devono saper gestire queste fasi».

Petazzi: «Condivido: rimango sempre molto sorpreso quando si ascoltano storie di startup finanziate con diversi miliardi di dollari che poi all’improvviso collassano e si scopre, solo dopo, che il founder aveva un passato compromettente o che la sua figura non era ben vista in azienda. Proprio a questo serve la due diligence e i nostri investitori sicuramente l’hanno fatta in modo molto accurato. Quanto alla capacità di cambiare e di rivedere le proprie posizioni, è ciò che abbiamo fatto in diverse occasioni, ma in una in particolare. Avevamo peccato di ingenuità nel pensare che bastasse investire tutto sul sistema museale. Dopo qualche tempo, infatti, ci accorgemmo che il costo di acquisizione per i clienti era troppo alto rispetto al tasso di conversione e all’utile che riuscivamo a generale dal carrello medio. Capimmo, quindi, che dovevamo ampliare l’offerta, anche perché i nostri clienti erano soprattutto turisti e viaggiatori che avrebbero trovato interessante una pluralità di proposte: il biglietto del museo, ma anche la visita guidata o la gita fuori porta. Il brand che avevamo scelto – Musement – si rivelò fortunatamente abbastanza flessibile da accomodare questo ampliamento di offerta e posizionamento permettendoci quindi questa evoluzione. Con gli anni, poi, ho scoperto una cosa peculiare: Musement in inglese arcaico significa pensiero profondo, riflessione meditativa. Insomma, l’opposto dell’intrattenimento a cui invece puntavamo! Per fortuna, anche tra i native speaker inglesi o americani lo sa solo qualche filologo».

De Guzzis: «Sono queste cose che fanno la differenza: l’apertura al confronto è essenziale. Musement è entrata in IAG introdotta da Lorenzo Franchini che all’epoca era il Managing Director ed è stata assegnata a me visto che mi occupavo di un’azienda nel campo dell’arte. Come detto, erano diversi dalla classica startup in cui investiva IAG e ho dovuto fare un'attività importante internamente per raccogliere commitment dai soci. La cosa che convinse me e gli altri due investitor a unirsi al percorso, fu il fatto che davanti avevamo dei professionisti con le idee chiare, pronti a ragionare».

Petazzi: «Imprenditore e investitore sono due mestieri diversi. È l’equilibrio, ancora una volta, la chiave. È fondamentale confrontarsi, ma in modo che ognuno rispetti l’autonomia dell’altro. Non credo alle società che sono eterodirette dagli investitori così come agli imprenditori che non hanno bisogno di nessuno».

In questo modo, siete arrivati all’exit. I soci IAG hanno investito in Musement nel 2013, nel 2018 la società è stata acquisita dal colosso tedesco TUI Group. Raccontateci il percorso.

Petazzi: «Vorrei fare una riflessione su cosa significa una exit per un founder, perché per un investitore l’obiettivo di moltiplicare il suo investimento iniziale è chiaro. Nel caso dell’imprenditore, l’exit può rappresentare il momento in cui tutto finisce, oppure il momento in cui si raggiunge lo scopo ultimo per cui è nata l’impresa. Per noi è stato così. Come detto, abbiamo sempre avuto l’ambizione di essere tra i leader del mercato, ma nel 2018 una società competitor – Get Your Guide – aveva raccolto quasi mezzo miliardo di euro di investimento. Noi, saremmo riusciti ad arrivare al massimo a 40 milioni di euro, che per il mercato italiano sarebbe stato un successo ma non ci avrebbe consentito di fare il salto a livello globale. Per questo, abbiamo capito che unire le nostre forze a quelle di un player industriale di grandi dimensioni nel settore travel - che potesse supportare l’ulteriore crescita dell’azienda fornendo sia risorse finanziarie sia accesso alla customer base propria e di altri suoi partner commerciali - sarebbe stata l’unica strada per realizzare la missione con cui eravamo nati e per valorizzare concretamente gli sforzi fatti durante il percorso e il capitale umano eccellente che avevamo con noi. Tra le varie proposte, quella del gruppo TUI è stata la più interessante perché eravamo perfettamente complementari. Loro, molto forti nelle destinazioni marittime, avevano bisogno di un supporto e di una piattaforma per aggregare le opportunità nelle città. Musement faceva esattamente questo e sapeva farlo bene, ma aveva bisogno di una spinta per diventare davvero un big player. Così è andata. Le persone che lavoravano con noi in Musement sono entrate a far parte di TUI. Parliamo di centinaia di profili molto qualificati. E anche io e miei soci abbiamo continuato il percorso con ruoli operativi dai, quali, personalmente, io mi sono staccato solo nell’ultimo anno. Oggi faccio parte dell’advisory board e mi confronto con il CEO un paio di volte al mese per ragionare di strategia. Fabio, invece, è tutt’ora il CTO e Claudio il COO, mentre Paolo è uscito un po’ prima di me».

De Guzzis: «Vista dal punto di vista di un business angels, un’exit è sempre un’ottima cosa, soprattutto se arriva in modo rapido. Lo dico perché di solito tra la partenza e l’exit passano degli anni e le condizioni di contesto cambiano, soprattutto nel mondo dell’innovazione. Potrebbero accadere cose inattese da un momento all’altro per questo è importante riuscire a uscire velocemente. È proprio una delle sliding doors di cui parlava Alessandro in precedenza. Nel caso di Musement, c’è un elemento in più: aver portato a compimento il progetto iniziale, proprio attraverso l’exit, è stato motivo d’orgoglio anche per IAG. Musement ha conservato la sua identità e ha raggiunto il suo obiettivo con un’exit di valore. È una storia di successo a tutto tondo in cui, ancora una volta, il timing è stato perfetto. Pensate, a cosa sarebbe successo solo un anno e mezzo dopo».

Petazzi: «Già, questo è un aspetto su cui rifletto spesso. Noi abbiamo siglato l’exit a fine 2018. Oggi qualcuno ci dice: “Valevate più di ciò per cui vi hanno valutati”. Sicuramente oggi il valore che Musement apporta al gruppo TUI può essere quantificato in parecchie centinaia di milioni di euro. Ma è anche vero che tale valore è molto legato alle sinergie industriali che si sono realizzate dal 2018, agli accordi commerciali resi possibili dall’essere parte del gruppo, e se non avessimo fatto l’exit a quelle condizioni, se non fossimo entrati in TUI, magari oggi l’azienda non esisterebbe più, saremmo stati spazzati via dal vento del Covid invece di essere uno dei tre principali player globali del nostro settore, che dà lavoro a centinaia di persone in Italia e migliaia nel mondo. Un competitor all’orizzonte puoi immaginarlo, una pandemia no. Avremmo fatto di tutto per salvare il nostro business e le nostre persone, ma non posso garantire che ci saremmo riusciti».

Dunque, cosa consiglieresti ad altri giovani imprenditori?

Petazzi: «Solitamente si raccontano solo i punti di luce, ma ci sono anche i coni d’ombra di cui un imprenditore deve essere consapevole: quando lavori a un progetto come Musement, la work-life balance non esiste, io ho dato il 120% delle mie energie. Poi, le cose sono andate bene, ma non sempre è così. Bisogna essere disposti ad accettarlo. E puoi accettarlo solo se crei un’impresa a partire da ciò che ti appassiona e ti interessa davvero. Perciò, scegliete qualcosa che amate, che avete voglia di approfondire, indipendentemente dal risultato. Trovate il senso, datevi una missione. Se andrà bene, sarete soddisfatti ed estremamente fieri. Se andrà male, apprezzerete in ogni caso il viaggio».

De Guzzis: «Alessandro ha ragione e questo impone un’ulteriore riflessione: il know how che l’imprenditore e il suo team apprendono durante il percorso non deve essere vanificato se la startup fallisce. Un fallimento non è la fine di tutto, ci sono mille altri modi per generare valore dal percorso fatto. E sarebbe importante se si riuscisse in modo strutturale ed organico a valorizzare ciò che hanno saputo fare anche start up che non hanno avuto successo. Una sorta di Open Innovation delle professionalità del mondo dell’innovazione. Detto ciò, auguro a IAG, a questa associazione di Business Angels appassionati e visionari di non perdere mai l’identità e la passione che li contraddistingue e di continuare a esplorare nuove opportunità. Opportunità che potrebbero nascere anche dal patrimonio straordinario delle persone che dall’associazione sono passate e passeranno, affinché anche in questo senso nessuna competenza vada sprecata e nessuna esperienza sia mai dimenticata».