5 settembre 2022

Il Champion che mi ha cambiato la vita



Se sono arrivato dove sono ora, è perché ho incontrato persone che mi hanno stimolato e protetto al tempo stesso, persone che mi hanno aiutato, affiancato, spronato, tutelato. Persone con cui ho creato un rapporto unico. Uno su tutti: Francesco Marini Clarelli. La mia storia in IAG la devo tutta – o quasi – a questo straordinario Champion.

di Francesco Baschieri

No, non ho mai avuto un vero piano. Ho sperimentato. Ho bruciato ponti e ne ho costruiti di nuovi. Ho cambiato modello di business più volte, mi sono sentito perso, mi sono sentito solo. Ma non ho mai mollato. La tenacia, del resto, è il tratto distintivo di qualsiasi imprenditore. Ma non ci ho dormito la notte, ve l’assicuro. Ho avuto paura di restare con il cerino in mano, di ritrovarmi a dover gestire un fallimento. Oggi, con il senno di poi, posso dire che non è andata così e che per fortuna non ho ceduto, non mi sono arreso. Ma all’epoca, vi giuro, non è stato semplice e se sono arrivato dove sono ora, è perché ho incontrato persone che mi hanno stimolato e protetto al tempo stesso, persone che mi hanno aiutato, affiancato, spronato, tutelato. Persone con cui ho creato un rapporto unico. Uno su tutti: Francesco Marini Clarelli. La mia storia in IAG la devo tutta – o quasi – a questo straordinario Champion.

Ma andiamo con ordine. Mi presento: sono Francesco Baschieri, Founder e CEO di Voxnest, società che sviluppa tecnologie per la distribuzione, misurazione e monetizzazione di audio digitali e podcast. Sono un ingegnere informatico e un imprenditore. La mia storia inizia dalla fondazione Spreaker, piattaforma leader per l’hosting di podcast e “spoken-word content”. Io e i miei soci eravamo appassionati di radio, il mercato dei podcast era all’inizio, ancora troppo complicato e poco conosciuto. Abbiamo pensato che, proprio per questo, poteva esserci mercato. Così, abbiamo iniziato a cercare capitali per finanziare il nostro progetto. E lì abbiamo incontrato IAG. In realtà, l’associazione era una vecchia conoscenza, ci eravamo incrociati in passato, ma ora avevo un’idea valida da proporre. Nel 2010, abbiamo fatto il primo found raising insieme, raccogliendo 250 mila euro. È stato un processo lungo e vissuto con molte ansie. È durato dieci mesi, anche se la mia società aveva agibilità di cassa solo per 9 mesi. Insomma, siamo arrivati alla fine con il conto in rosso. Però, ci siamo arrivati. Subito dopo, abbiamo capito che dovevamo cambiare qualcosa nel nostro modello di business. La società fatturava poco, gli investitori non erano contenti. Ricordo una data, nello specifico: il 15 ottobre del 2010 era arrivata la prima parte del bonifico dei soci IAG. Festeggiammo con una grande festa che, probabilmente, se tornassi indietro non rifarei. Anzi, certamente non rifarei. Non butterei neanche un centesimo di quei soldi. Solo tre mesi dopo, gli investitori erano già con il fiato sul collo: mi pressavano, la società non stava andando bene e la seconda tranche di investimenti era a rischio. Mi chiesero di andare negli USA, dove avevo deciso di lanciare l’attività, per provare a cambiare le cose. Lo feci. Ero sicuro che quello fosse il luogo giusto per far volare la nostra idea, anche se non sapevo ancora bene come.

Ammetto: non fu un bel periodo, non fu semplice e non fummo agevolati dalla rete. Il perché è semplice: il primo Champion a cui eravamo stati affidati non era realmente interessato al nostro progetto, un anno più tardi infatti mollò l’associazione. Io mi sentivo come un pesce fuor d’acqua. Ricordo ancora i retreat come dei momenti di grande angoscia: era come se fossi tornato ai tempi della scuola, nei panni di uno studente impreparato chiamato dal professore alla lavagna. Senza possibilità di aiuto, senza possibilità di riscatto. Poi, è arrivato Francesco Marini Clarelli. Da quando è diventato il nostro nuovo Champion, è stata tutta un’altra storia. Non solo lui era presente e coinvolto, ma godeva di stima e rispetto da parte degli altri investitori, non aveva paura di prendere delle decisioni e di perorare la sua causa, ovvero la nostra causa. Soprattutto, sapeva agire da filtro, tra noi e gli investitori, sapeva calmare le mie ansie e le loro. Perché, guardate che affrontare una riunione strategica avendo davanti dieci teste, dieci super investitori, non è semplice. Metteteci poi, l’inesperienza di un giovane imprenditore, quale ero io all’epoca, e capirete facilmente perché il Champion è davvero tutto.

Insieme, abbiamo unito le competenze, le visioni, le esperienze. Ci siamo potenziati. Abbiamo sperimentato. Abbiamo fatto un giro assurdo, ma alla fine siamo arrivati dove avremmo sempre voluto essere. Non ci siamo proposti più come piattaforma, ma come strumento e ci siamo accorti che c’erano persone disposte a pagare per avere un abbonamento mensile. Siamo andati avanti così per alcuni anni, poi abbiamo iniziato a lavorare sul back-end, infine sulla pubblicità. Abbiamo trovato una società americana che aveva capito come lavorare bene con la pubblicità e una volta superate le diffidenze – anche interne al nostro team -, ci siamo fusi con loro. Abbiamo acquisito la loro expertise e l’abbiamo messa a sistema. Le cose, finalmente, hanno iniziato a girare. Il giro di boa è stato nel 2017.

Come siamo sopravvissuti a così tanti cambiamenti? Credo che la chiave sia sempre stata l’ottimismo. L’imprenditore è naturalmente portato a credere che anche il più piccolo tentativo di miglioramento possa generare svolte epocali. In realtà, non è quasi mai così, ma questo non è un freno, anzi. L’imprenditore ci prova, ci crede. E così è stato anche per me, per noi. Con lo stesso spirito abbiamo affrontato l’exit. La prima proposta è arrivata nel 2019, abbiamo avviato il percorso di due diligence ma poi, a un certo punto, il processo si è arenato. La società è scomparsa. È stato molto provante. Ma anche in quel caso, siamo andati avanti, abbiamo continuato con la caparbietà di chi vuole dimostrare di potercela fare lo stesso. Un anno dopo, ci hanno richiamati e abbiamo ripreso il processo. Abbiamo lavorato con gli avvocati anche 20 ore al giorno e anche in questo caso la presenza di Francesco Marini Clarelli è stata fondamentale. Ci ha presentati a Mainardo De Nardis, imprenditore con grande credibilità nell’ambiente neyworkese che è entrato a far parte del nostro board e ci ha accreditati agli occhi della società con cui stavamo trattando. Parliamo di iHeartMedia, operatore media quotato al Nasdaq ed editore principale di podcast commerciali a livello globale, che già possedeva una quota di minoranza in Voxnest e che poi ne ha rilevato l’intero capitale. Oggi, infatti, Voxnets è una delle principali piattaforme per realizzare e monetizzare i podcast a livello mondiale. La società trasforma ogni utente nell’ideatore di un proprio palinsesto radiofonico, mixando e trasmettendo contenuti di ogni tipo, dalla musica alle notizie, dallo sport alla cronaca. Grazie a un’esclusiva tecnologia combina l’esperienza d’uso di una radio con l’interazione tipica di un social network. I programmi radiofonici personalizzati possono essere ascoltati live e in podcast sulla piattaforma di Spreaker, sui principali social network, nei siti web, blog e su iPhone. Insomma, l’exit ha cambiato tutto. A livello organizzativo abbiamo dovuto ridefinirci, capire quanta autonomia avremmo avuto, quali sarebbero stati i nostri nuovi obiettivi. Oggi le cose vanno bene, abbiamo trovato una buona dimensione e, personalmente, ho riscoperto il valore del tempo libero. Tempo per scoprire nuove passioni, come suonare la chitarra, e per pensare al futuro. Mi diverte immaginare come potrebbero cambiare le cose nel mio settore da qui ai prossimi anni: il mercato di podcast negli USA è molto affollato, i creators si sposteranno su nuove piattaforme, immagino arriveranno nuove spinte dagli indipendenti, mentre anche gli editori dovranno sperimentare. In Italia, invece, la penetrazione è ancora bassa, cosa che ci dà più opportunità.

Pensate che vi abbia detto tutto? In realtà, manca ancora qualcosa che rende la mia storia, se possibile, ancora più singolare. Pensate: dopo aver passato 12 anni a cercare di far crescere la mia azienda, facendomi affiancare e supportare da esperti, consulenti e business angels, oggi mi ritrovo dall’altra parte. Mi è capitato di fare il mentore e in un caso anche di investire in una startup negli Stati Uniti. Sapete, proprio da quell’esperienza ho capito molte cose di quelle che prima avevo solo giudicato dall’esterno. Ho capito che fare il business angel non è da tutti, che sicuramente rischia meno rispetto a un imprenditore e forse fa anche meno fatica, però, al tempo stesso deve avere il sangue freddo per esercitare il giusto distacco. E per un animo come il mio, è durissima in alcune situazioni restare a guardare: l’impulso di prendere il comando e mettersi al posto dell’imprenditore per addrizzare il tiro di alcuni suoi comportamenti è fortissimo. Per questo, quando mi chiedono di dare un consiglio a un aspirante imprenditore, rispondo che se è un vero innovatore, una persona che ha dentro di sé il sacro fuoco dell’impresa, non ho nulla da consigliare. Sarà in grado da solo di cadere e di rialzarsi, non si farà spaventare dalle montagne russe, anzi, saranno un incentivo per fare ancora di più. Piuttosto, un consiglio, mi sento di darlo agli investitori: ecco, quando vi trovate davanti persone così, lasciatele fare. Ricordatevi che il piano non è tutto, che le risposte derivano dal mindset, dall’intuito, dalla capacità del singolo di tirare fuori il meglio anche dalle situazioni peggiori. Insomma, si dice sempre che è più importante scommettere sulle persone piuttosto che sulle idee. E allora, fatelo. Fatelo di più. Fidatevi e date spazio. Le opportunità migliori nascono dalla mente umana, non certo da un file Excel.